Da quasi un anno esiste un progetto di legge alla Camera presentato dalla sinistra, che propone di rendere rimborsabili dal servizio sanitario nazionale le spese mediche sostenute per le medicine alternative, agopuntura e omeopatia in particolare.
Io sono un convinto sostenitore dell’assoluta necessità di arricchire la medicina moderna con tutto l’enorme bagaglio di conoscenze accumulato nei secoli dalle medicine popolari nei vari paesi del mondo; lo scarso interesse suscitato in Italia dalla medicina cinese è anche segno di un’insensibilità della classe medica verso culture diverse dalla nostra, nonostante che l’efficacia dell’agopuntura (per esempio nell’anestesia) sia stata ampiamente dimostrata. Mi pare di fare un grave torto alla medicina cinese, così ricca di tradizione, nel metterla sullo stesso piano dell’omeopatia, disciplina nata quasi a tavolino meno di due secoli fa, tanto più che l’omeopatia non ha né una base teorica soddisfacente (il che sarebbe il meno), né una solida base sperimentale.
Astrattamente parlando, il principio omeopatico “le piccole dosi hanno un’effetto opposto alle grandi dosi” in molti casi è del tutto corretto ed è accettato ed usato in medicina, per esempio nelle vaccinazioni contro le allergie. Il guaio è che, quando questo principio è utilizzato dai medici omeopatici, le dosi sono veramente piccole: le diluizioni del principio curante (facciamo per concretezza l’esempio della caffeina) sono talmente elevate che nella preparazione finale non resta nemmeno una molecola di caffeina. Per rendere l’idea del tipo di diluizione usata in omeopatia possiamo fare un esempio paradossale: se prendiamo una goccia del preparato puro, la mettiamo nell’oceano Pacifico, agitiamo il tutto, riprendiamo una goccia dal Pacifico e la rimettiamo nell’oceano Atlantico, rimescoliamo il tutto, abbiamo un ottimo preparato omeopatico; se poi vogliamo qualcosa di più efficace possiamo prendere una goccia dall’Atlantico, versarla nell’Indiano e di nuovo mescolare il tutto.
Ovviamente nei laboratori non si procede in questo modo: si fanno delle diluizioni successive di un fattore dieci o cento alla volta, ma il risultato è sempre lo stesso: il preparato finale non è distinguibile dall’acqua distillata mediante nessuna analisi di tipo chimico, fisico e biologico. Se ciò non fosse, dovremmo ben stupircene, in quanto non si tratta altro che di acqua distillata. Infatti gli esperimenti pubblicizzati l’anno scorso dai giornali del dottor Benveniste sulla memoria dell’acqua (che sembravano dare una conferma sperimentale dei principi dell’omeopatia) sono stati rifatti da vari laboratori che hanno dimostrato l’assenza della memoria dell’acqua.
Non bisogna nemmeno stupirsi del fatto che molte persone abbiano ricevuto benefici da cure omeopatiche: l’acqua distillata, se presa in modiche dosi, non ha effetti collaterali e la convinzione di prendere qualcosa di utile fa spesso passare da sola la malattia: si tratta del ben noto effetto placebo. La proposta di far rimborsare dal servizio sanitario le medicine omeopatiche è difficilmente sostenibile anche perché essendo tutti preparati solamente acqua distillata, non è possibile verificare le sofisticazioni. D’altro canto il principio “ognuno ha il diritto di curarsi come vuole”, se accettato, porterebbe a finanziare i viaggi a Lourdes, che sono probabilmente ancora più efficaci dell’omeopatia.
La domanda veramente interessante è perché l’omeopatia riscuote tutto questo successo, specialmente nella sinistra? Questo successo non è affato trascurabile dal punto di vista commerciale; un quarto delle vendite in Francia di prodotti medicinali sono di tipo omeopatico. I motivi sono probabilmente legati al modo di presentarsi che la la scienza ufficiale assume: molte certezze, quasi mai dubbi o riflessioni critiche o aperture verso i saperi e le culture diverse: i successi vengono magnificati e gli errori non vengono quasi mai riconosciuti. Questo atteggiamento in fondo antiscientifico, che non può che alienare le simpatie del grosso pubblico. La diffusione dell’omeopatia è un campanello d’allarme ed è probabilmente un indice del fallimento dei programmi di educazione e divulgazione scientifica.