I lavori di Plank sul quanto di azione (1901) e di Einstein sulla relatività ristretta (1905) segnarono l’inizio di un’abbandono radicale dei concetti della fisica classica. La relatività ristretta nacque subito come una teoria completa, quasi come Atena dalla testa di Zeus; al contrario la nascita della meccanica quantistica richiese una gestazione molto più faticosa, che durò per tutto il primo quarto del secolo. Durante questo processo i concetti classici di posizione, traiettoria, il significato stesso del verbo esistere vennero profondamente modificati: l’elettrone quantistico è completamente diverso dall’elettrone classico.
La radiazione di corpo nero
Plank, come molti altri fisici della sua generazione, era profondamente interessato alle proprietà della radiazione emessa da un corpo nero. A temperatura ambiente un oggetto nero, per esempio il carbone, non emette luce visibile (ma solo raggi infrarossi); al contrario, quando viene scaldato dal fuoco, emette luce rossa. Se viene portato ad temperature più alte, il colore si sposta verso il giallo; quando arriva a temperature superiori ai 10.000 gradi (l’oggetto si è ormai vaporizzato), il colore incomincia a tendere verso l’azzurro ed buona parte della radiazione è concentrata nell’ultravioletto. In altri termini la radiazione emessa ha un massimo ad una frequenza che è proporzionale alla temperatura.[1].
Verso la fine del secolo scorso i fisici si erano resi conto che la teoria classica dell’elettromagnetismo e della termodinamica predicevano che i corpi neri a temperatura ambiente dovevano emettere a tutte le frequenze, e quindi anche nel visibile. Questa predizione, in evidente contrasto con l’esperienza di tutti i giorni, si basava sull’ipotesi dell’esistenza nei corpi materiali di cariche elettriche libere di muoversi intorno alla loro posizione d’equilibrio: le oscillazione di queste cariche, provocate dall’agitazione termica, erano responsabili delle produzione delle onde elettromagnetiche e quindi della luce. Tuttavia questa linea di pensiero non poteva essere completamente errata, in quanto la quantità di radiazione emessa a bassa frequenza era correttamente predetto dalla teoria: solo ad alta frequenza i dati sperimentali non erano più in accordo con la teoria.
Il quanto di azione
Plank risolse la contraddizione tra teoria ed esperimento introducendo un ipotesi del tutto nuova. Secondo la teoria classica le cariche che oscillano ad una data frequenza ([[nu]]), emettono luce con la stessa frequenza: Plank suppose che per qualche motivo sconosciuto gli oscillatori potessero emettere la luce in maniera discontinua, mediante dei processi elementari, durante ognuno dei quali venisse prodotta una quantità di luce di energia proporzionale alla frequenza [[nu]] di oscillazione. L’energia minima necessaria per attivare un processo elementare era data da
E = h [[nu]] (1)
dove h è una quantità molto piccola[2].
La teoria classica prevedeva che l’energia venisse emessa con continuità; la piccolezza del valore di h spiegava come mai la discretizzazione dell’energia potesse non essere mai stata osservata nei normali processi macroscopici.
L’equazione (1) implica che l’energia minima necessaria per emettere della luce con frequenza [[nu]] aumenta linearmente con la frequenza e per frequenze sufficientemente elevate diventa più grande dell’energia degli oscillatori[3]. Un oscillatore non può emettere più energia di quanta ne possegga; ne consegue che i processi di emissione con una frequenza elevata richiedono un’energia superiore a quella del singolo oscillatore e non sono quindi presenti[4].
La legge descritta dall’equazione (1) rimaneva misteriosa, ma Plank era fiducioso che si sarebbe chiarita quando si sarebbero capite in maggior dettaglio le proprietà degli oscillatori: per Plank l’origine l’equazione (1) non doveva essere cercata nelle proprietà della luce, ma semplicemente nei dettagli dell’interazione fra luce e materia.
La nascita del fotone
Einstein, nella sua memoria sull’effetto fotoelettrico[5] del 1906 (per la quale gli fu dato il premio Nobel), rovesciò l’impostazione di Plank e suppose che la luce viaggiasse in pacchetti di energia localizzati nello spazio: la relazione (1) doveva essere quindi valida per i singoli processi di emissione e di assorbimento della luce.
Quest’ipotesi di Einstein fu accettata con una grande riluttanza dagli altri fisici (solo dopo che gli esperimenti diedero ragione ad Einstein) in quanto tutti gli esperimenti di diffrazione e di diffusione avevano dimostrato ampiamente la natura ondulatoria della luce; inoltre l’identificazione della luce con le onde elettromagnetiche era fuori discussione. Non sembrava quindi possibile che la luce fosse composta di pacchetti di energia (che furono successivamente detti fotoni): sembrava un ritorno alla vecchia e screditata teoria corpuscolare della luce, secondo la quale la luce era composta da corpuscoli che si muovevano ad altissima velocità. Appare per la prima volta in fisica il dualismo onda – particella, che diventerà sempre più acuto, fino ad essere risolto dalla meccanica quantistica e dal principio di complementarità.
L’atomo di Bohr
Un notevole passo avanti venne fatto da Bohr nel 1913. Gli esperimenti indicavano chiaramente che gli atomi erano composti da elettroni che giravano intorno ad un nucleo pesante, formando dei veri sistemi planetari; gli elettroni potevano passare da un’orbita ad un’altra emettendo o assorbendo radiazione.
Lo studio dello spettro[6] di molti materiali, in particolare dell’idrogeno, sembrava suggerire che le orbite non fossero arbitrarie: era come se l’elettrone potesse girare intorno al nucleo solo a delle distanze fissate a priori. Bohr riuscì a trovare un generalizzazione dell’equazione (1) tale da potersi applicare a tutti moti periodici; la sua teoria prevedeva che solo alcune orbite erano permesse. Se si calcolava l’energia necessaria per far passare un’elettrone da un’orbita ad un’altra, si ottenevano dei valori per lo spettro dell’atomo d’idrogeno in ottimo accordo con i dati sperimentali.
Il lavoro di Bohr aveva aumentato le contraddizioni: la teoria classica dell’elettrone non era consistente con l’equazione (1) e le sue generalizzazioni: una nuova meccanica era necessaria, ma non si vedeva come fare per incominciare a metterne le fondamenta.
L’elettrone come onda
Nel 1924 il giovane principe de Broglie propose nella sua tesi di dottorato un’ipotesi rivoluzionaria: se la luce poteva manifestarsi sia come un onda sia come un corpuscolo (che viene prodotto ed assorbito in un punto preciso), forse anche la materia ordinaria aveva un’aspetto ondulatorio, che non era stato ancora osservato. Ne conseguiva fra l’altro che gli elettroni dovevano essere diffratti da un cristallo, esattamente come avveniva per i raggi luminosi[7]. I primi esperimenti di diffrazione degli elettroni vennero effettuati e in tempi brevi la proposta di de Broglie fu confermata.
Da quel momento in poi la vicenda ebbe una brusca accelerazione: poco tempo dopo Schröedinger scrisse l’equazione che descrive le onde di de Broglie; Heisemberg contemporaneamente propose un formulazione matematica di una nuova meccanica (la meccanica quantistica) basata sulla teoria delle matrici[8]. Le due teorie sembravano completamente diverse, c’era tuttavia un notevole imbarazzo nel scegliere l’una o l’altra in quanto entrambe portavano alle stesse predizioni nei pochi casi in cui era possibile fare dei conti espliciti: meno di un’anno dopo Dirac (con grande sollievo di tutti) dimostrò che le due proposte, che sembravano talmente differenti, erano due formulazioni matematiche diverse della stessa teoria.
L’interpretazione della meccanica quantistica
( ovvero dove sta l’elettrone quando non viene osservato?)
Nel 1927 la meccanica quantistica nella sua forma attuale era già formulata e i fisici si trovarono di fronte a problemi concettuali di non facile soluzione. La costruzione della meccanica quantistica era stata effettuata procedendo a tentoni, aggrappandosi ad ogni possibile indizio, usando le contraddizioni della meccanica classica per scardinare questo vecchio edificio. Solo dopo la costruzione del nuovo edificio, venne il problema (ancora dibattuto) dell’interpretazione.
Le difficoltà nascono dal fatto che le onde di de Broglie indicano la probabilità di trovare la particella (per esempio l’elettrone) in qualche punto dello spazio: le equazioni della meccanica quantistica, date le condizioni iniziali, permettono di prevedere correttamente i risultati delle osservazioni e di calcolare quale sia la probabilità di trovare l’elettrone in un dato punto dopo un certo tempo , ma non permettano di rispondere alla domanda “dove sta l’elettrone quando non viene osservato?”.
Un classico esperimento che illustra questa situazione apparentemente paradossale, consiste nel fare attraversare a degli elettroni (uno alla volta) due fenditure, nel mettere un rivelatore dietro le due fenditure (una pellicola fotografica o un schermo fluorescente) e nel vedere dove gli elettroni vanno a finire. La meccanica quantistica predice la distribuzione degli elettroni sullo schermo in ottimo accordo con i dati sperimentali.
Tuttavia la meccanica quantistica non permette di calcolare in quale delle due fenditure l’elettrone sia passato e afferma che la domanda non ha senso: se infatti insistiamo a sapere la risposta a questa domanda mettendo dei rivelatori che registrano il passaggio degli elettroni davanti alla fenditura, la forma della distribuzione sullo schermo diventa decisamente differente e scompaiono quegli effetti (i fenomeni d’interferenza) che si potevano attribuire al fatto che l’elettrone poteva passare contemporaneamente attraverso le due fenditure.
Ovviamente la contraddizione consiste nel fatto che consideriamo l’elettrone una particella, e non un’onda; al contrario se consideriamo l’elettrone come un’onda, non ci sono difficoltà a pensare che possa attraversare le due fenditure contemporaneamente, mentre non capiamo come l’onda possa concentrarsi in modo da produrre una scintilla su un punto solo dello schermo.
Bohr ha riassunto brillantemente la situazione col suo principio di complementarità: l’elettrone possiede sia la natura dell’onda che della particella: le due nature non si possono manifestare contemporaneamente perché sono complementari l’una all’altra. Se insistiamo a misurare la traiettoria dell’elettrone, ponendo quindi l’accento sulla sua natura corpuscolare, i fenomeni ondulatori (per esempio l’interferenza) svaniscono; nello stesso modo se osserviamo l’interferenza non possiamo più parlare di traiettoria.
Sull’interpretazione della meccanica quantistica si sono sparsi fiumi d’inchiostro; possiamo cercare di riassumere una discussione che dura più di sessanta anni affermando che non ci sono difficoltà se ci limitiamo a considerare la meccanica quantistica come una serie di regole empiriche utili per prevedere i fenomeni osservati; se tuttavia vogliamo interpretare queste regole come la manifestazione di qualcosa che esiste e che cambia col tempo e ci domandiamo che cosa sia questo qualcosa e quali siano le sue proprietà quando non viene osservato, una risposta universamente accettata non esiste e le varie proposte non sono completamente soddisfacenti.
L’elettrone acquista struttura ed un fratello gemello
All’inizio l’elettrone era schematizzato come una particella puntiforme, priva di ogni struttura. Come conseguenza degli studi dettagliati fatti sullo spettro dell’atomo d’idrogeno in varie condizioni sperimentali (in presenza di un campo elettrico o di un campo magnetico), fu una grande sorpresa scoprire a metà degli anni venti che l’elettrone girava su se stesso come una trottola o un piccolo giroscopio, producendo in questo modo un campo magnetico. Questa proprietà dell’elettrone in quasi tutte le lingue è chiamata spin[9].
All’inizio lo spin dell’elettrone era stato puramente introdotto allo scopo di spiegare i dati sperimentali e i fisici erano rimasti notevolmente stupiti dal valore del campo magnetico prodotto dall’elettrone: esso era esattamente il doppio di quello che poteva essere calcolato supponendo che l’elettrone fosse una sferetta uniformemente carica che ruotava su se stessa; in termini più tecnici il rapporto giromagnetico era uguale a due. Non c’era nessun indizio sulle origini di questo fattore due.
Il mistero si chiarì quando Dirac, nel 1928, riuscì a trovare una generalizzazione dell’equazione di Schröedinger consistente con la relatività ristretta: l’equazione di Dirac implicava l’elettrone avesse uno spin e che il rapporto giromagnetico fosse proprio due, in perfetto accordo con i dati sperimentali.
L’equazione di Dirac aveva un’altra conseguenza ancora più spettacolare: doveva esistere una particella avente le stesse proprietà dell’elettrone, tranne la carica, opposta e quindi positiva: il positrone (o antielettrone). Una radiazione elettromagnetica di energia elevata (per esempio un raggio gamma) poteva in vicinanza di un nucleo convertirsi in una coppia elettrone positrone; nello stesso modo un’elettrone ed un antielettrone incontrandosi potevano annichilirsi dando origine a raggi gamma.
Nasce così l’anti materia: mentre l’antielettrone fu scoperto quasi subito (nel 1932) l’osservazione dell’antiprotone fu effettuata solo nel 1956.
La formulazione relativistica di Dirac permetteva di arrivare ad una teoria completa dell’interazione fra onde elettromagnetiche ed elettroni. Il compito non era facile: c’erano dei notevoli ostacoli di natura tecnica e concettuale e solo nel dopoguerra, per merito di Feynman, Schwinger, Tomonaga e Dyson, viene alla luce una formulazione consistente dell’elettrodinamica quantistica. Effetti sottili, che erano stati precedentemente trascurati, potevano venir calcolati e si scoprì che il rapporto giromagnetico non era due ma differiva da due dell’ordine dell’un per mille. Questa correzione all’equazione di Dirac poteva calcolarsi teoricamente in buon accordo con i dati sperimentali. Attualmente le prime nove cifre del rapporto giromagnetico sono note sperimentalmente ed il loro valore coincide con la previsione teorica.
Le applicazioni della meccanica quantistica.
Dopo i primi successi spettacolari della meccanica quantistica i fisici si sono resi velocemente conto che tutte le proprietà della materia potevano in linea di principio essere comprese utilizzando i nuovi strumenti. Si tratta di un lavoro lungo e faticoso, che continua ancora adesso.
Forse il primo risultato più importante fu la comprensione che le proprietà chimiche dei corpi potevano essere spiegate dalla meccanica quantistica come l’effetto dell’interazione degli elettroni degli strati più esterni degli atomi. La chimica non era più una collezione di regole empiriche, ma poteva essere in linea di principio dedotta dalla fisica.
Un’altro passo importante fu l’aver chiarito quali erano i meccanismi della conducibilità elettrica: come mai alcuni elementi si comportavano come metalli ed gli elettroni erano liberi di muoversi e in grado di trasportare la corrente elettrica, mentre in altri materiali (gli isolanti) gli elettroni erano bloccati e la corrente elettrica non poteva passare.
Lo studio di queste fenomeni portò l’attenzione su materiali di tipo intermedio, i semiconduttori nei quali la corrente passa con difficoltà. Non appena le proprietà fisiche dei semiconduttori furono sufficientemente comprese (gli effetti quantistici giocano un ruolo cruciale), nel 1948 il fisico americano Bardeen fu in grado di progettare a tavolino il primo transistor; la realizzazione effettiva seguì a corta scadenza. E` praticamente impossibile costruire un transistor per caso, senza averne prima la teoria: la comprensione delle conseguenze della meccanica quantistica sul moto degli elettroni è stata quindi un passo obbligato in questa scoperta che ha avuto ripercussioni profonde sul modo di vivere in questa seconda metà del secolo.
L’elettrone ai nostri giorni
Saltiamo i vari passaggi che si sono fatti nel dopoguerra nella comprensione della struttura delle particelle elementari e passiamo subito a descrivere le conoscenze attuali. Le particelle elementari si dividono in due tipi: i Bosoni, che sono associati alle forze intercorrenti fra particelle[10], e i Fermioni, che sono essenzialmente i costituenti stabili o semistabili della materia.
I Fermioni noti attualmente si dividono in quarks e leptoni. I quarks sono gli oggetti elementari che costituiscono i protoni e i neutroni del nucleo atomico; essi sono legati da forze molto forti, tanto che non possono mai separarsi: non è possibile osservare un quark isolato. Al contrario i leptoni non interagiscono fortemente e si dividono in leptoni neutri e carichi. I leptoni neutri sono anche detti neutrini e hanno una massa piccolissima, forse zero.
Tutte queste particelle si possono raggruppare in famiglie, ciascuna composta di due quarks, un leptone carico e un neutrino (più le loro rispettive antiparticelle). Attualmente sono state scoperte solo tre famiglie (vedi tavola 1) e ci sono validi motivi di credere che non ce ne siano altre.
In questa classificazione l’elettrone è uno dei tre leptoni carichi, il più leggero dei tre[11] e la sua leggerezza spiega perché è stato scoperto molto prima degli altri leptoni carichi[12]. Gli altri due leptoni carichi furono scoperti alla fine degli anni 30 nei raggi cosmici (mu) e all’accelleratore di Stanford (California) nel 1974 (tau). Le proprietà dei leptoni mu e tau sono estremamente simili a quelle dell’elettrone e sembrano differire solo per quanto riguarda la massa.
Al giorno d’oggi non è affatto chiaro perché ogni famiglia debba essere composta di due quarks, un leptone ed un neutrino e perché il numero di famiglie debba essere proprio tre. Trovare una spiegazione di questi fatti è una delle sfide più affascinanti di questo ultimo scorcio di secolo: una soluzione a questi problemi forse potrà essere trovata solo dopo una revisione delle nostre concezioni della natura della stessa ampiezza di quella avvenuta all’inizio del secolo.
Famiglia Quarks Leptone carico Neutrino
prima up down elettrone neutrino elettrone
seconda charme mu neutrino mu
strange
terza top bottom tau neutrino tau
Tavola 1: la classificazione delle particelle elementari (Fermioni).