Il premio Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, al termine della lectio magistralis durante l’Inaugurazione dell’Anno Accademico all’Università La Sapienza di Roma
L’intervento del premio nobel all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università la sapienza
Ci sono forti tendenze antiscientifiche nella società attuale, il prestigio della scienza e la fiducia in essa stanno diminuendo velocemente. Insieme a un vorace consumismo tecnologico si diffondono largamente le pratiche astrologiche, omeopatiche e antiscientifiche (vedi per esempio No Vax) e sta per essere riconosciuta da una legge dello Stato italiano una pratica francamente stregonesca come l’agricoltura biodinamica, dove piccole quantità di letame vengono fatte maturare dentro le corna di vacche che hanno avuto almeno un figlio (l’indispensabile cornoletame).
Non è facile capire fino a fondo l’origine di questo fenomeno; è possibile che questa sfiducia di massa nella scienza che arriva fino al nostro Parlamento sia dovuta anche a una certa arroganza degli scienziati che presentano la scienza come sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, anche quando in realtà non lo è affatto. A volte l’arroganza consiste nel non cercare di far arrivare al pubblico le prove di cui si dispone, ma di chiedere un assenso incondizionato basato sulla fiducia negli esperti.
Proprio il rifiuto di accettare i propri limiti può indebolire il prestigio degli scienziati che a volte sbandierano un’eccessiva sicurezza che non è autentica, davanti a un’opinione pubblica che in qualche modo ne avverte la parzialità di vedute e i limiti. A volte cattivi divulgatori presentano i risultati della scienza quasi come una superiore stregoneria le cui motivazioni sono comprensibili solo agli iniziati. In questo modo chi non è scienziato può essere spinto in una posizione irrazionale di fronte a una scienza percepita come magia inaccessibile e quindi a preferire altre speranze irrazionali: se la scienza diventa una pseudomagia, perché non scegliere la magia vera?
Ma forse le difficoltà attuali hanno origini più profonde che devono essere comprese a fondo allo scopo di poterle contrastare. Stiamo entrando in un periodo di pessimismo sul futuro che ha la sua origine da crisi di varia natura: crisi economica, riscaldamento globale, esaurimento delle risorse, inquinamento. In molti Paesi si aggiungono l’aumento delle diseguaglianze, il precariato, la disoccupazione, le guerre.
Mentre una volta si pensava che il futuro sarebbe stato necessariamente meglio del presente, si è intaccata la fede nel progresso, nelle magnifiche e progressive sorti dell’umana gente: molti temono che le future generazioni staranno peggio di quelle attuali. E come la scienza aveva il merito del progresso, così adesso la scienza riceve il biasimo del declino (reale o solo percepito non importa). La scienza è a volte sentita come una cattiva maestra che ci ha portato nella direzione sbagliata e cambiare questa percezione non è facile. C’è una grande insoddisfazione verso tutti coloro che sono responsabili di questa situazione e gli scienziati non sfuggono a questo biasimo.
Ma se anche al livello planetario la scienza continuerà a svilupparsi e a trascinare la tecnologia, non c’è nessuna garanzia che questo accada anche in un Paese come l’Italia. La deindustrializzazione sistematica dell’Italia è il filo conduttore della storia italiana dalla tragica morte di Mattei (1961) in poi assieme al sempre più marcato disinteresse della grande industria per la ricerca dopo la fine di esperienze pilota come quella dell’Olivetti. È ben possibile che i nostri governanti decidano che l’industria e la ricerca italiana debbano avere posto sempre più secondario e che il Paese debba lentamente scivolare verso il Terzo mondo.
Se consideriamo anche il lento decadere della scuola pubblica, il disinvestimento dell’impegno finanziario del governo italiano nei beni culturali, ci rendiamo conto che tutte le attività culturali italiane sono in lento, ma costante, declino.
Bisogna difendere la cultura italiana su tutti i fronti, dobbiamo evitare di perdere la nostra capacità di trasmetterla alle nuove generazioni. Se gli italiani perdono la loro cultura cosa resta del Paese? Bisogna costituire un fronte comune di tutti gli operatori culturali italiani (dagli insegnanti degli asili alle accademie, dai programmatori ai poeti) per affrontare e risolvere l’attuale emergenza culturale. La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale.
Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Robert Wilson, che nel 1969, di fronte a un senatore americano che insistentemente chiedeva quali fossero le applicazioni della costruzione dell’acceleratore al Fermilab, vicino a Chicago, in particolare se fosse utile militarmente per difendere il Paese, gli risponde: «Il suo valore sta nell’amore per la cultura: è come la pittura, la scultura, la poesia, come tutte quelle attività di cui gli americani sono patriotticamente fieri; non serve per difendere il nostro Paese ma fa che valga la pena difendere il nostro Paese».
Per affermare la scienza come cultura, bisogna rendere la popolazione (almeno quella colta) consapevole di cosa è la scienza, di come la scienza e la cultura si intreccino l’una con l’altra, sia nel loro sviluppo storico sia nella pratica dei nostri giorni. Bisogna spiegare in maniera non magica cosa fanno gli scienziati viventi, quali sono le sfide dei nostri giorni. Non è facile, specialmente per le scienze dure dove la matematica gioca un ruolo essenziale; ma, con un certo sforzo, si possono ottenere ottimi risultati.
Ai giorni d’oggi uno dei compiti fondamentali delle università è fornire una riflessione integrata su dove stia andando la scienza, le varie discipline che la compongono, comprese naturalmente quelle umanistiche e sociali. Bisogna soffermarsi sui rapporti reciproci tra scienza e società, su come il progresso scientifico influenzi, nel bene e nel male, la nostra vita e su come le esigenze della società condizionino lo sviluppo delle tecnologie e in ultima analisi della ricerca scientifica. (…) Con la loro grande autorevolezza le università possono essere protagoniste di riflessioni da comunicare a un pubblico vasto: devono essere capaci di influenzare la società e le istituzioni anche in presenza di interessi settoriali che possono spingere nella direzione opposta.
Ma questo interesse nella scienza ha avuto una ricaduta insospettata. Molte persone sono rimaste sconcertate dal vedere scienziati illustri accapigliarsi con la stessa veemenza che potrebbero avere esponenti politici di partiti diversi. Questo stupore è dovuto anche a una incomprensione del meccanismo con cui si forma il consenso scientifico. Quando si verifica un fatto nuovo, scienziati diversi propongono interpretazioni diverse. Procedendo lentamente, provando e riprovando come diceva il grande linceo Galileo Galilei, aumentando le conoscenze con nuovi dati, con nuovi esperimenti, si forma lentamente un consenso attorno a una delle interpretazioni proposte. (…)
In un tempo in cui la scienza televisiva sembra indecisa, con grande scandalo del pubblico, il nostro ruolo diventa sempre più importante sia per arrivare il più velocemente possibile a un consenso nella comunità scientifica, sia per diffondere al pubblico i risultati su cui si è raggiunto il consenso. Abbiamo il dovere di promuovere una cultura basata sui fatti e impedire che si diffonda una pseudoscienza che possa indurre a scelte sbagliate. Non basta capire, trovare la strada, ma bisogna anche riuscire a comunicare, a spiegare non solo i risultati ma anche la metodologia seguita, per poter essere convincenti in maniera duratura.
Non è facile farlo, ma è possibile farlo. Basta guardarsi intorno per capire che quello che si fa non basta. Bisogna fare di più, molto di più, e se non lo faremo, non potremo sfuggire alle nostre responsabilità.