La lezione del Nobel Giorgio Parisi: “Non credo che il Pianeta sia in pericolo, ma noi lo siamo”

di Giacomo Talignani

 

Il premio Nobel per la Fisica in collegamento: “Noi scienziati impegnati a capire le incertezze della crisi climatica, ma ormai sappiamo a cosa andiamo incontro. Serve un mondo più equo e sostenibile”

Nonostante qualche linea di febbre, il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi è estremamente lucido e chiaro quando parla ai ragazzi: “Non si tratta di salvare il Pianeta, ma di salvare noi stessi”. Collegato per la sua prima speciale lezione in “DAD”, dedicata agli studenti presenti al summit di Green&Blue e tutti coloro che l’hanno seguita in streaming, il professor Parisi sprona i giovani alla “consapevolezza sulla crisi climatica, informatevi” e preme perché sia lo “Stato, il governo” a orientarsi verso un’economia “più sostenibile”. Definisce deludente l’accordo preso alla Cop26 e spiega come sia necessario agire ora per tentare di limitare l’incertezza sul futuro delle nostre vite, un tentativo che dovrà essere più equo e solidale, anche con scelte drastiche se necessario.

Accolto da un applauso, Parisi spiega subito che “spesso non viene capito che quando si parla di scienze esatte bisogna tener conto che queste includono incertezza nei risultati. Nella scienza la maggior parte del lavoro è capire queste incertezze. Immaginate di avere un metro da sarto e misurare un corridoio di 15 metri: lo misurate più volte e avete un risultato, ma ci sarà comunque incertezza. Potete vedere se tirate un po’ di più il metro e cambia qualcosa, ma resta incertezza. Il grosso lavoro degli scienziati sta proprio nello stabilire quali sono i limiti, i margini dell’incertezza. Questo vale per tutte le scienze, anche i modelli climatici. Quarant’anni fa le previsioni davano dei valori, con incertezze, ma non molto diverse da ora sull’aumento della temperatura. Dunque da 40 anni sappiamo che c’è questo aumento legato alla CO2 e il grosso del lavoro fatto dagli scienziati è cercare di quantificare l’incertezza del modello, verificare le ipotesi, capire discrepanze e errori. Un lavoro delicato andato avanti per decenni per arrivare a queste previsioni, scientifiche proprio perché contengono incertezza. Così come c’è incertezza sugli scenari sui vari gradi”.

Parisi apre la fondamentale parentesi sull’incertezza per arrivare a spiegare come “il problema del cambiamento climatico ha tanti aspetti ancora non compresi. Per esempio sappiamo che una parte sostanziale di emissioni gas serra non rimane in atmosfera ma viene assorbita oceano. Ma esattamente come e dove? Per quanto tempo? Sono problemi molto delicati, a cui lavorano gli scienziati che vanno in giro per oceani a misurare quantità di anidride carbonica per cercare di capire quanto questo meccanismo funzionerà ancora”. Anche su questo c’è dubbio: “Se si inceppa il meccanismo, se l’oceano diventa incapace di assorbire i gas serra, si avrà un notevole aumento di CO2”.n Summit, la lezione Viene dunque da chiedersi, queste previsioni, questi scenari, sono affidabili? Secondo Parisi “lo sono per il minimo, per la previsione più ottimistica, ma potrebbe capitare che non lo siano per il massimo, la previsione più pessimistica. In questo caso c’è la possibilità nell’evoluzione della temperatura che si incontrino eventi non prevedibili, i tipping point, catastrofi non più facilmente recuperabili”.
Per chiarezza, fa un esempio. “Oggi molta CO2 viene immagazzinata nelle foreste, dall’Amazzonia agli Usa, Canada, Artico. Ma se ci fossero una serie di anni uno dopo l’altro molto sfortunati, secchezza, poca umidità, oppure siccità prolungata, eventi estremi, si potrebbe immaginare che queste foreste brucino in maniera terribile con un danno enorme per biodiversità e emettano quantità enormi di CO2 nell’aria che aumenterebbe l’effetto serra e così via. Oppure, si squagliano le banchise polari: quanto questo cambierà le circolazioni dell’acqua negli oceani? Accelererà i cambiamenti climatici? Ugualmente per il permafrost in Siberia che rilascia metano. Tutti questi eventi fanno parte di una incertezza che include che le cose possano andare ancora peggio di quanto succede ora”.
Se dunque già oggi – mentre osserviamo gli eventi estremi che ci colpiscono – possiamo avere il senso di queste incertezze, è tempo di renderci conto che “noi non dobbiamo salvare il Pianeta, ma noi stessi. Il Pianeta ha cinque miliardi d’anni, ha  grandi animali da mezzo miliardo d’anni, è sopravvissuto alla caduta di asteroidi e altri cambiamenti climatici. Quindi io non credo che il Pianeta sia in pericolo, ma noi lo siamo. Tutta la nostra civilizzazione è basata su risorse agricole estremamente delicate da gestire con il cambio della temperatura. Immaginiamoci se si fermano i  monsoni nell’oceano indiano: cesserebbe di piovere nel sud est asiatico e miliardi di persone nell’Asia, senza cibo, vorrebbero emigrare altrove. Ecco perché la situazione è estremamente difficile”.

Il punto, ricorda il premio Nobel, è comprendere che le risorse del nostro Pianeta – dalle terre rare e i minerali che stiamo esaurendo sino a quelle agricole o l’acqua – non sono infinite, ma limitate. “Dobbiamo davvero capire la nostra impronta ecologica: dobbiamo diventare una società sostenibile se vogliamo vivere per millenni e per farlo dobbiamo puntare più su risorse rinnovabili che su tutte le risorse del Pianeta”.
Per questo G20 e Cop26 sono stati eventi “deludenti”, perché va bene decidere di impegnarsi per mantenere il Pianeta entro un grado e mezzo, ma non è possibile farlo “senza una scaletta precisa dei provvedimenti: serve una quantità di provvedimenti urgenti subito, è ridicolo parlare di limitare l’aumento – come dire mezzo etto in più o in meno dal macellaio – senza un impegno preciso”. Per esempio quelli “più seri che servirebbero per fermare il carbone. Ad oggi non c’è vero accordo per fermarlo nel 2050, viste le posizioni di Cina e India”.

Questo perché esiste “un enorme problema politico: è completamente velleitario risolvere il problema clima se non si capisce prima il costo di questo accordo su chi deve gravare. E’ chiaro che bloccare le emissioni comporterà costi pesi e difficoltà enormi, ma da qualche parte dobbiamo cambiare livello di vita” spiega Parisi.

E fa un esempio: “Pensiamo alle temperature delle case? Non possiamo sempre credere di tenerle alle temperature che vogliamo tutto l’anno. Dobbiamo abituarci al freddo nelle case, magari mettendoci due maglioni. Ma questa cosa dovrebbe essere imposta, dai governi. E nel farlo  – così come i costi della ristrutturazione industriale – non bisognerebbe scaricare sempre su parte della popolazione più povera. Non possiamo pensare di diminuire per esempio il consumo di benzina aumentando le tasse sulla benzina: servono politiche sulla redistribuzione dei costi”.

E’ un po’ come il discorso di Usa e India: “Le emissioni di CO2 di un americano corrispondono a nove volte quelle di un indiano e anche l’Europa è cinque volte sopra India. All’India viene chiesto di bloccare il carbone, ma se dovesse farlo subito avrebbe un impatto enorme sull’economia indiana, che sarebbe minore rispetto a quello che potrebbe avere per esempio sugli Stati Uniti. Io non sono d’accordo con gli indiani, ma capisco il loro punto di vista che dicono voi avete inquinato per un secolo e mezzo e ora tocca anche a loro poterlo fare. Dunque il punto è questo: non è pensabile che ci possa essere un accordo sincero fra economie così diverse come Usa, Cina, India e Europa senza che non ci sia un accordo economico enorme per la suddivisione dei costi di questa operazione. Un accordo che dovrebbe essere più equo e solidale”.

“Se non si prende un punto di vista equo e solidale fra le varie nazioni  – continua Parisi – sarà estremamente difficile un accordo sul clima. Gli interessi locali delle singole nazioni tendono ad avere il sopravvento. Bisogno quindi entrare in un altro meccanismo, con una solidarietà fatta in maniera tale che i sacrifici necessari vengano suddivisi” spiega, sostenendo che per quanto necessario l’ipotesi di 100 miliardi dai paesi più ricchi a quelli più poveri vada bene, ma dovrebbero essere molti di più, perché quella cifra sono solo “noccioline” per quanto in realtà servirebbe.

Il problema è che l’azione dovrebbe essere – con tanto di scaletta – immediata. I cambiamenti climatici infatti  “vanno avanti senza badare ai nostri problemi politici e gli effetti tendono a diventare sempre più forti. Negli ultimi cinquant’anni c’è stato il rallentamento della corrente Golfo: se si fermasse avremmo per l’Europa una situazione tragica con un calo di temperature di cinque-otto gradi, e rimetterla in moto sarebbe  estremamente complicato. Quindi è necessario che vengano presi provvedimenti davvero efficaci e immediati per fermare il clima, con impegni precisi, altrimenti rischiamo di mitigare un po’ la crescita della crisi ma semplicemente rimandando solo di qualche anno possibili catastrofi. Più peggiora la situazione, più tempo passa, meno tempo abbiamo per fare nuove tecnologie e soluzioni innovative contro la crisi” chiosa il professore.

Su invito di Riccardo Luna, rispondendo alle domande dei ragazzi, il premio Nobel si congeda con un consiglio diretto alle giovani generazioni.

“Voi ragazzi siete i più colpiti dal cambiamento climatico. Serve consapevolezza di cosa sta accadendo, cercare di capirlo, recuperare informazioni di alta qualità e cercare di convincere adulti, genitori, nonni, che è fondamentale che il tema cambiamento climatico entri dentro la politica. Quando si vota alle elezioni generali questo tema dovrà essere fondamentale per la scelta delle posizioni. Quindi dovete insistere, insistere, insistere sull’importanza del cambiamento climatico, cercando di convincere chi vota e gli adulti. Le decisioni sono in mano ai governanti e i giovani devono spingere perché se ne occupino”.