Lucia Capuzzi
La campagna per il “Dividendo della pace”: liberare risorse per combattere il cambiamento climatico, le pandemie e la povertà. Un fonda da 1.000 miliardi di dollari entro il 2030
La questione si è imposta sulla ribalta mediatica mondiale il mese scorso, durante la 26esima Conferenza Onu sul cambiamento climatico. Il consenso generale sulla necessità di ridurre il riscaldamento globale si è scontrato con un problema pratico non di poco conto: il costo della riconversione del sistema economico in chiave verde. Il balletto di cifre calcolato dai differenti esperti si è attestato su una media di 44mila miliardi di dollari entro il 2050. Dove trovarli, specie ora che l’emergenza Covid ha bruciato quasi 11mila miliardi di crescita, il 10,2 per cento del Pil internazionale? Da un’altra prospettiva, però, proprio quegli stessi numeri sono la chiave per uscire dall’apparente vicolo cieco. In valore assoluto, 44mila miliardi sono una somma esorbitante.
Eppure inferiore – e non di poco – alla spesa in armi prevista, al ribasso, fino alla metà del secolo: 58mila miliardi. I proventi per la difesa militare, secondo lo Stokholm international peace research institute (Sipri) sfiorano ormai i duemila miliardi l’anno, + 87 per cento rispetto al 2001. E il bilancio continua a lievitare.
Appena la settimana scorsa, sempre il Sipri ha rivelato che i cento maggiori produttori di armamenti hanno fatturato 531 miliardi di dollari nel 2020, l’anno della pandemia, in cui il Pil globale è calato del 3,1 per cento.
Proprio a partire da questi dati di fatto, oltre cinquanta premi Nobel e presidenti di Accademie della scienza nazionali hanno lanciato la campagna per il “Dividendo della pace”. Una «semplice proposta per l’umanità», la definiscono gli studiosi, tra cui figurano, oltre agli organizzatori Carlo Rovelli e Matteo Smerlak, Carlo Rubbia, Giorgio Parisi, Roger Penrose, Steven Chu, mentre il Dalai Lama ha espresso il proprio sostegno all’iniziativa.
I firmatari chiedono ai governi di tutti gli Stati Onu di «avviare trattative per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni». In questo modo, «enormi risorse verranno liberate e rese disponibili, il cosiddetto “dividendo della pace”, pari a mille miliardi di dollari statunitensi entro il 2030». La metà dovrebbe essere impiegata per creare un fondo globale gestito dalle Nazioni Unite per lottare contro pandemie, cambiamento climatico e povertà. La metà restante, invece, resterebbe ai singoli Paesi. «In questo momento, il genere umano si trova ad affrontare pericoli e minacce che sarà possibile scongiurare solo tramite la collaborazione – concludono –. Cerchiamo di collaborare tutti insieme anziché combatterci».
L’idea riecheggia quanto affermato più volte dalla Chiesa a partire dalla Populorum progressio di San Paolo VI. E ripreso da papa Francesco Fratelli tutti: «Con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri». Cogliendo questo invito, ribadito nell’occasione dal segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, il Comitato per una civiltà dell’amore ha lanciato, al termine dell’incontro di Assisi del 17 novembre scorso, un articolato piano di riconversione di un particolare tipo di armi, ormai proibite dal diritto internazionale ma tuttavia ancora appannaggio delle grandi potenze: le testate atomiche. In vista della Conferenza per il riesame del trattato di non proliferazione, prevista a New York dal 4 al 28 gennaio, il Comitato, guidato da Giuseppe Rotunno, ha ventilato la ripresa del piano Megatons to megawatts che, in vent’anni, ha trasformato 20mila ordigni nucleari in elettricità. Un passo fondamentale – spiega Rotunno – per innescare sviluppo ed eliminare il dramma della fame.
La stessa Annalena Baerbock, neoministra tedesca degli Esteri, si è detta favorevole al disarmo atomico seppure restando fedele alla politica della Nato. Da parte loro, la Rete italiana pace e disarmo e la Campagna sbilanciamoci avevano chiesto, lo scorso anno, all’Italia un gesto di disarmo simbolico: una moratoria all’acquisto di nuovi sistemi d’armamento per il 2021. I sei miliardi di euro messi a bilancio sarebbero stati utilizzati per finanziare istruzione e sanità, messe a dura prova dalla pandemia. Non solo governo e Parlamento hanno ignorato l’idea. Per il prossimo anno, si prevede un ulteriore incremento del 3,4 per cento. I fronte per la pace, però, non cede. E continua a lavorare per la creazione di un dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta, posto alle dipendenze della presidenza del Consiglio.