Nel suo ultimo libro, Un Paradiso Perduto (Feltrinelli 1994, lire 32.000), Marcello Cini esamina lo sviluppo scientifico di quest’ultimo secolo in varie discipline (fisica, matematica, biologia ed intelligenza artificiale) sottolineando le somiglianze nei cambiamenti concettuali e l’influenza dei processi sociali.
Si tratta di un libro estremamente interessante e stimolante: le scoperte scientifiche, correlate al contesto storico nel quale sono state effettuate assumono uno spessore culturale non usuale. Tentativi di sintesi a livello interdisciplinare sono resi sfortunatamente molto rari dal grande sviluppo delle scienze moderne e dall’iperspecializzazione degli scienziati. Questo libro ha il vantaggio di essere stato scritto da una persona che ha una conoscenza diretta, non mediata, dei processi di produzione della scienza e che è anche uno scienziato con una forte sensibilità per le implicazioni filosofiche e sociali della sua attività. Anche se il libro può essere letto agevolmente da non specialisti delle materie trattate, gli scienziati vi troverranno esposto un punto di vista nuovo che permette di considerare la storia della loro disciplina da un’angolazione diversa.
L’autore studia da più di venticinque anni il rapporto tra scienza e società e il processo attraverso il quale esse si influenzano reciprocamente: aveva scritto (insieme ad altri) un libro che fece scalpore, l’Ape e l’architetto (1969), in cui si presentava un punto di vista dichiaratamente marxista e veniva enunciata la tesi della non neutralità della scienza. Nell’ultimo libro (ed anche nel precedente Il gioco delle regole, 1982, scritto in collaborazione con Danielle Mazzonis) Marcello Cini porta avanti un’analisi precisa e non convenzionale al di là degli stereotipi.
Programmaticamente Un Paradiso Perduto non è un libro di divulgazione scientifica: infatti secondo l’autore la divulgazione è “per sua natura frammentaria: ogni articolo, ogni libro, ogni documentario descrive una tessera di un mosaico senza curarsi della scena complessiva rappresentata”. Al contrario, qui la scienza moderna viene esaminata globalmente nel suo sviluppo storico cercando di coglierne il significato, i motivi profondi che regolano i cambiamenti. Si tratta di un’impresa estremamente difficile, impossibile se non si sceglie in maniera opportuna un buon filo conduttore per esaminare l’enorme massa di risultati scientifici ottenenuti finora.
Nella prima parte del libro Cini sceglie di concentrarsi sui tipi di linguaggio usati nel fare scienza e dedica un capitolo a ciascuno di quelli più rappresentativi. Nel primo capitolo, Il linguaggio della certezza, viene esaminata la fisica classica, che domina da Galileo fino all’inizio di questo secolo; è il periodo in cui si passa “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, fino ad arrivare al determinismo ottocentesco in cui tutto è una conseguenza necessaria e diretta delle leggi della natura. L’universo può essere descritto con una precisione arbitrariamente elevata e la nostra incapacità di prevedere il futuro è solo conseguenza della scarsa conoscenza del presente e delle nostre limitate capacità di calcolo. La svolta determinata dalla meccanica quantistica, con l’introduzione del principio di indeterminazione di Heisemberg e l’abbandono della possibilità di descrivere il mondo esterno con precisione assoluta, viene esaminata nel capitolo successivo, Il linguaggio dell’indeterminazione. Domande che sembrerebbero propriamente filosofiche (del tipo “dov’è un oggetto prima che noi lo guardiamo?”) diventano spunto per aspri dibattiti e scontri fra i fisici più affermati. Gli sviluppi più moderni della fisica (gli stessi trattati in Ordini del Caos, a cura di M. d’Eramo, edito dalla Manifesto Libri) sono descritti nel terzo capitolo, Il linguaggio della complessità, dove troviamo un’analisi di temi attualmente molto alla moda, come il caos deterministico ed i sistemo complessi. Questa parte termina con un capitolo, Il linguaggio della mente, dedicato ai più recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale e ai tentativi di comprendere il funzionamento del cervello.
Nella seconda parte del libro, La scienza come apprendimento sociale, l’analisi storica svolta precedentemente serve come punto di partenza per porre delle domande di natura più generale sulla scienza e sul suo rapporto con la società. Nel capitolo chiave del libro, Validità della conoscenza scientifica, vengono messi a confronto due modi di concepire la storia della scienza. Nel primo, quello tradizionale, che postula un’evoluzione lineare, le scienze avanzano per accumulo di conoscenze: la strada è una sola e non ci sono bivi. Se si sono verificate polemiche, discussioni fra scuole diverse, una sola (invariabilmente la vincitrice) aveva ragione e l’altra aveva torto. Nella seconda concezione invece non esiste un solo modo di risolvere i problemi e la scienza che conosciamo è una fra le tante possibili.
La prima impostazione è giustificabile se si fa riferimento al procedere normale della scienza, in cui la ragione ed il torto sono assegnabili effettuando gli opportuni esperimenti, ma non non rende conto del fatto che durante le rivoluzioni scientifiche (piccole o grandi) il dissidio fra le varie scuole è di natura più profonda e non facilmente dirimibile. Molto spesso l’oggetto delle controversie è la natura stessa della scienza, quali siano i suoi scopi, quali siano i metodi leciti e quali siano da rifiutare, perché non scientifici, quali siano i problemi interessanti e quali siano invece irrilevanti.
Ma se l’evoluzione della scienza non è determinata a priori e sono sempre possibili delle scelte, la sua storia diventa estremamente più interessante in quanto si tratta di capire quali siano le forze schierate nei due campi, le alleanze (sia pure concettuali) e i motivi profondi del successo.
Sebbene molti siano pronti ad ammettere che i più svariati fattori, sociali, religiosi, ideologici influenzino lo sviluppo della scienza, queste influenze sono considerate in fondo irrilevanti: esse possono solo accelerare o ritardare il progresso, che può avvenire in un’unica direzione. Questo punto di vista è estremamente condiviso. La sua diffusione è dovuta al fatto che la propria disciplina viene appresa nei manuali scritti dai vincitori. Gli scienziati delle generazioni successive non si rendono conto dell’esistenza di uno scontro di valori: accettano naturalmente le scelte di fondo dei vincitori e non sono in grado di percepire che molto spesso la proposta alternativa presentava vantaggi in direzioni che la tendenza dominante non contemplava.
Sfortunatamente non è possibile dire come si sarebbe sviluppata la scienza se a un dato momento fossero state fatte delle scelte differenti, così come non possiamo sapere quale sarebbe ora la geografia politica dell’Europa se Napoleone avesse vinto a Waterloo. Tuttavia quest’impossibilità di descrivere modelli alternativi non implica l’unidirezionalità della crescita della scienza.
Cini riprende questi temi discussi nei suoi libri precedenti, facendo vedere come nel processo di produzione scientifica, le influenze della società si mescolano con la necessità insopprimibile di rapportarsi con il mondo esterno. Non sono accettabili né il punto di vista scientista di completa autonomia della scienza dal sociale, né la tesi opposta secondo la quale i concetti della scienza si riducono completamente a credenze sociali istituzionalizzate. C’è bisogno di un’analisi più sottile in cui si tenga conto simultaneamente dell’oggettività della scienza e della sua storicità.
Questa posizione teorica viene messa alla prova dei fatti nella ricostruzione di alcune svolte chiave della fisica e della biologia in cui si vede chiaramente l’esistenza di due strade diverse entrambi percorribili e delle forze in gioco che fanno sì che un’alternativa vinca e l’altra soccomba.
Quest’analisi ha conseguenze interessanti sull’ethos della scienza e sulle norme di comportamento degli scienziati. “I dibattiti che animano le discipline di punta delle scienze della vita mostrano che le posizioni a confronto differiscono soprattutto per le premesse di carattere metascientifico che giustificano questi punti di vista. Essi mostrano che giudizi di valore e giudizi di fatto sono indissolubilmente legati. (…) Il codice tradizionale di comportamento degli scienziati, che pretende da loro un atteggiamento neutrale ed avalutativo, appare dunque in questi casi insufficiente e, al limite, eticamente scorretto, in quanto impone di camuffare, sotto un aspetto asettico e oggettivo, scelte di valore sulla natura e sui fini dell’uomo come individuo e come specie.”
Il libro si conclude con l’affermazione della necessità di costruire una cultura dei limiti e della responsabilità. Dopo trecento anni di egemonia della cultura del macchinismo “bisogna tornare ad una concezione del mondo come sistema finito e integrato, capace di autostabilizzazione, costituito da parti reciprocamente interagenti, a loro volte strutturate in modo analogo, anch’esse funzionalmente correlate tra di loro. (…) Si è rotta la macchina che produceva certezze: la certezza delle magnifiche sorti e progressive, la certezza nel Sol dell’Avvenire, la certezza nel nuovo paradiso terrestre che la Scienza e la Tecnica ci promettevano di ritrovare. (…) Il paradiso nel quale credevamo di vivere è svanito: più presto ce ne accorgeremo e meglio sarà”.
Come si vede non si tratta di un dibattito accademico. Molto spesso le ideologie politiche e la visione che avevamo del futuro dipendevano dalla fede in queste certezze e cambiare il punto di vista su questi argomenti ha profonde consequenze. Inoltre la discussione teorica sui rapporti tra scienza e società non è molto lontana da un problema di grande attualità di quale sia la procedura giusta con cui la società debba prendere decisioni, che a volte si riveleranno cruciali per il futuro (per esempio sull’uso dell’energia nucleare). Non è ragionevole lasciare la decisione nelle mani degli scienziati esperti, che spesso non sono d’accordo tra di loro in quanto portatori di valori diversi. Cini fa vedere come sia possibile concretamente mettere a punto una politica della scienza “capace di salvaguardare al tempo stesso la libertà dei ricercatori e il diritto dei cittadini a non subire passivamente le eventuali conseguenze nocive di decisioni prese a loro insaputa”.
Questo libro è destinato a suscitare vivaci discussioni: molte delle tesi esposte non sono condivise da molti scienziati, anche di sinistra, i quali tendono a ragionare in un’ottica convenzionale. Si tratta di un contributo molto importante che dovrebbe smuovere un situazione culturalmente stagnante e provocare un amplio e salutare dibattito: in questi momenti di crisi un lavoro teorico di riflessione e di ripensamento è necessario quanto mai.